I dati sul mercato del lavoro Americano usciti venerdì rimarcano l’oceano che separa la vitalità dell’economia USA dalla mestizia di quella europea. Nel mese di novembre l’economia americana ha creato (NonFarm Payrolls) 203.000 nuovi posti di lavoro, di un soffio sopra il livello critico di 200.000 che discrimina tra una situazione di sostanziale stabilità ed una invece di ripresa più robusta. Non sorprende quindi che il tasso di disoccupazione sia sceso al 7% (dal 7,3% del mese precedente) e questa volta la discesa si sia accompagnata ad un aumento del tasso di partecipazione alla forza lavoro, da 62,8% a 63%.
Da notare che questo miglioramento si è registrato nonostante il contributo negativo del settore pubblico, paralizzato ormai da 8 mesi di guerriglia parlamentare tra democratici e repubblicani, culminati con lo shut-down delle agenzie governative nel mese di ottobre. Confrontando la situazione americana con quella europea, si evince l’importanza delle “aspettative” nel condizionare le dinamiche economiche. Gli Stati Uniti quest’anno hanno probabilmente subito una stretta fiscale di dimensioni superiori a quella imposta dalla politica di austerità voluta dalla Merkel. In Europa però non si ha certezza su quale possa essere il contributo del settore pubblico: i tedeschi supporteranno il nuovo corso di Bruxelles? Se sì, fino a quando e fino a che punto? Per non parlare dell’incompetenza e dei pasticci combinati da un paese importante come l’Italia, che ha di fatto trasformato l’abolizione dell’IMU prima casa da una fonte di potenziale stimolo ad una sorgente di ulteriore incertezza e precarietà.
Quali saranno le conseguenze di questi dati per la FED? Le condizioni per iniziare il tapering (cioè la riduzione della quantità di liquidità immessa nel sistema via acquisti di T-Bond e MBS) ci sono tutte. Se l’economia creasse 200.000 posti di lavoro al mese, il tasso di disoccupazione potrebbe scendere al 6,5% già a metà del 2014. Superata questa soglia, l’economia americana tornerebbe in una area di normalità che è chiaramente incompatibile con iniezioni mensili di liquidità così massicce e con tassi zero. Tuttavia, come i dati del Black Friday (solo parzialmente compensati dal Cyber Monday) hanno mostrato, la ripresa americana ha ancora dei punti deboli. Vista la prudenza con cui la FED si è mossa fino ad ora, è difficile immaginare una mossa poco prima di Natale, con il rischio appunto di impattare su un periodo così critico per il settore commerciale. Inoltre, è in corso il passaggio di testimone tra Bernanke e la Yellen. Per gestire una fase molto delicata come sarà l’inversione di direzione della politica monetaria (dopo 6 anni caratterizzati non solo dai tassi d’interesse più bassi degli ultimi 200 anni ma anche da massicce iniezioni di liquidità attraverso strumenti non convenzionali), è necessario avere un Governatore nel pieno dei poteri. Anche perché gli effetti maggiori dell’inevitabile rialzo dei tassi si avranno non tanto sugli USA ma sulle province dell’impero americano (paesi emergenti e paesi sviluppati più deboli, come l’Italia), che hanno indirettamente beneficiato della situazione di tassi “zero” e che in futuro potrebbero subire l’impatto dell’inversione dei flussi di capitale (dalla periferia al centro).
AMERICAN DREAM
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