GOODBYE FIAT

L’operazione, iniziata nel 2009, si sta completando e nell’estate del 2014 dovremmo assistere alla fusione Chrysler-Fiat. Però, a differenza dei quotidiani e della Borsa, non riesco a festeggiare. Con il completamento dell’acquisizione di Chrysler, i destini di Fiat si sganceranno definitivamente da quelli dell’Italia. Personalmente ho pochi dubbi che il punto di arrivo sia lo spostamento del Gruppo negli USA. Basta guardare ai numeri e ai fatti. Quando l’Amministrazione Obama ha consegnato Chrysler a Fiat, il management ha dovuto sottoscrivere un piano che non era solamente “finanziario” ma prevedeva precise tappe “industriali”. Queste tappe, concretizzatesi con i vari “bonus” di aumento della partecipazione in Chrysler, prevedevano esplicitamente lo spostamento del baricentro produttivo negli USA. Ad esempio, nell’estate del 2011 è stato raggiunto per Chrysler l’obiettivo “pari a 1,5 mld di dollari al di fuori di Canada, Messico e Stati Uniti, ottenuti grazie all’intesa con il 90% dei concessionari Fiat in Brasile e il 90% in Unione europea per distribuire uno o più veicoli Chrysler, e l’accordo per la remunerazione di Chrysler Group per l’utilizzo da parte di Fiat delle sue tecnologie al di fuori dei Paesi del North american free trade agreement (Nafta)”. E questo ci spiega anche perché Fiat è riuscita dove Daimler, con ben altre disponibilità economiche e tecnologiche, ha fallito. Ovviamente, questa sorta di reverse take-over ha avuto il suo impatto. Non esce un nuovo modello FIAT adatto al mercato europeo da tempo immemorabile: la nuova 500 è del 2007. In Italia, FIAT fattura circa il 10% del totale auto del Gruppo. I vari marchi “minori” sono quasi scomparsi (primi 11 mesi del 2013 in Europa: Lancia 70.000, Alfa-Romeo 60.000). Le fabbriche italiane rimangono aperte solo grazie alla Cassa Integrazione. Se il futuro italiano dell’auto sono Maserati e Ferrari (in due non arrivano a 15.000 auto all’anno), è come esaltarsi per il cachemire di Cucinelli stando seduti sulle macerie dell’industria tessile.
Sono ovviamente contento che un pezzo di storia del capitalismo italiano possa sopravvivere e sono anche contento che per una volta lo spostamento all’estero di una azienda italiana non avvenga per acquisizione da parte di qualche multinazionale. D’altro canto, la classe dirigente piemontese, che è una delle poche ad essere ancora degna di questo nome, non si è mai tirata indietro rispetto a scelte radicali, dolorose ma necessarie. Quando i Savoia dovettero scegliere fra la Savoia e il Piemonte, non esitarono a sacrificare le terre che avevano visto nascere la loro dinastia. E, quando riuscirono a realizzare l’Unità d’Italia, non ci pensarono due volte nel trasferire la capitale del Regno da Torino a Roma. Torino si rassegnò a perdere il ruolo di capitale. Avrebbe vissuto altre stagioni esaltanti, anche grazie alla FIAT, ma non sarebbe più stata capitale. E penso che non ci sia nessuno che allora come adesso possa criticare tale decisione.
E’ quindi chiaro che non è mia intenzione criticare la decisione di Marchionne e della famiglia. E’ pura fantasia pensare, come fa Della Valle, che sia sufficiente investire qualche miliardo di euro per battere la concorrenza tedesca o giapponese nell’industria “vera”. La competitività di un settore industriale non dipende solo da quanto investi e i francesi ne sanno qualcosa. Quando lessi che Obama chiamava per nome Marchionne, pensai subito … è andata. In Italia, con chi può parlare Marchionne dei suoi piani industriali in Cina? Delle sue necessità in Brasile? Con nessuno. E di certo non con la nuova classe politica italiana orgogliosamente forgiatasi nell’esperienza municipale “a contatto con la gente vera, quella che fa la spesa nei mercati rionali”. Comunque, anche con una classe dirigente diversa, probabilmente il trasferimento di FIAT all’estero sarebbe stato probabilmente inevitabile. E’ l’effetto della globalizzazione. Come per un promettente scienziato (di qualunque paese) sarebbe assurdo non andare a lavorare nei grandi laboratori scientifici americani, così per una vera multinazionale non è possibile rimanere agganciati ad un paese, culturalmente e economicamente, periferico. Non è solo questione di “spread”. Le grandi aziende per competere in Europa e nei mercati globalizzati hanno bisogno di un sistema paese funzionante, cioè di una tecnocrazia in grado di supportare la classe politica nella difesa degli interessi nazionali. Non basta scegliere i propri rappresentanti in base alla (giovane) età e al genere (rosa) per vincere queste sfide. Anzi, un sistema partitico sgangherato rischia di rivolgere contro l’unica tecnocrazia che ci può difendere, quella europea, la frustrazione per la propria inadeguatezza.

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4 pensieri su “GOODBYE FIAT

  1. Condivido in toto l’analisi. Spero e mi auguro, ma su questo solo il futuro potra’ darci risposta che la classe dirigente italiana che verra’ sappia coniugare il termine GLOCAL. Globale e locale insieme. Direi che andare nei mercati rionali non e’ peccato. E’ necessario Pero’ saper parlare anche con il mondo del business con dei consulenti all’altezza delle sfide che il nostro paese deve affrontare.

  2. Ahimè è tutto così amaramente vero…combattiamo insieme questa situazione non ascoltando chi ci ha distrutto rubando in parte il futuro (e non solo)

  3. Forse lo spostamento di FIAT in USA era inevitabile e sull’allontanamento dall’Italia ( e dall’Europa) avrà anche giocato il fatto di non essere riuscita nell’acquisizione della Opel a causa dell’ostruzionismo messo in atto a suo tempo dai tedeschi. Ma andare via dall’Europa non è un fatto ineluttabile, visto che le case auto tedesche vanno bene. Certo che, pur vivendo in un mercato globale nel quale anche le migliori intenzioni non bastano , gli italiani ci hanno anche mezzo del loro per aggravare la situazione:: pensiamo al costo dell’energia, al problema dell’approvvigionamento di acciaio dovuto alla folle questione di Taranto, alla’ottusità del sindacato, supportato da decisioni ridicole della magistratura del lavoro. Classico esempio del fatto che quando tutti hanno delle ragioni, nessuno ha ragione.

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