Possono i promotori sopravvivere nel mondo della Mifid 2?

Avendo vissuto a contatto con i promotori per parecchi anni la mia risposta è positiva, ma ad una condizione. Devono diventare consulenti a tutto tondo, professionisti che sono in grado di farsi pagare direttamente dai loro clienti per i servizi che offrono, senza più ricorrere al sotterfugio delle retrocessioni pagate dalle SGR in sostanziale conflitto d’interessi con i loro stessi clienti. Devono cioè continuare ad avere lo stesso coraggio che hanno mostrato quando hanno abbandonato il posto da dipendenti per imbarcarsi in un’avventura imprenditoriale come è quella del promotore.

Cerchino di convincere l’ANASF a non pietire un recepimento annacquato della Mifid 2. Perché, conoscendo le autorità italiane, magari lo ottengono pure, ma così facendo rischiano di compromettere la sostenibilità della loro stessa professione e inibire quel processo evolutivo che è invece iniziato in altri paesi europei. L’Italia ha già perso la battaglia del risparmio gestito grazie all’insipienza delle banche proprietarie delle maggiori SGR e delle autorità preposte che non hanno mai spinto più di tanto per la separazione dei ruoli tra produzione e distribuzione. La rincorsa del profitto di breve si è rivelata catastrofica per il sistema nel lungo periodo. Se i promotori vogliono seguire lo stesso destino, basta che seguano l’esempio delle banche e cerchino la protezione dalla rivoluzione qualitativa che la Mifid2 sta prospettando.

E’ vero che alcuni non ce la faranno a fare il salto di qualità, ma il consulente finanziario deve diventare una figura rispettata come quella dell’avvocato e del medico. Non può essere confusa con quella del venditore porta a porta. Collocare un prodotto finanziario non è come vendere un Folletto. Il business del promotore (o del private banker) è infatti un business di relazione che deve sperabilmente protrarsi per l’intera vita del cliente e possibilmente trasmettersi anche alle generazioni successive. Se sono imprenditori, i promotori hanno già capito che non ha senso vendere ad un cliente qualcosa che il cliente stesso non vuole pagare. D’altro canto, se un imprenditore non è capace di convincere un proprio cliente a pagare per il servizio che offre, due sono le cose: o il cliente non apprezza il servizio o l’imprenditore non è un buon commerciale. Se vale il secondo punto, è meglio che il promotore cambi mestiere e ritorni a fare il dipendente. Se vale il primo punto, è meglio che il promotore rinunci a quel cliente, che alla prima crisi finanziaria comunque perderà, e si concentri sugli altri clienti che invece ne apprezzano il servizio.

Le argomentazioni a difesa dello status quo avanzate dai rappresentanti dell’industria del risparmio gestito (Edouard Carmignac con la sua lettera aperta, pubblicata nei giorni scorsi dai principali quotidiani europei) o dalle associazioni di categoria (Germana Martano, nell’intervista su Plus del 19 luglio) sono abbastanza mortificanti per chi ha lavorato nel mondo del risparmio gestito e della consulenza finanziaria.

In che senso bisogna “proteggere” i risparmiatori dalla diffusione degli ETF? E’ ovvio che la diffusione degli ETF aumenterà nel momento in cui il promotore o la banca non potrà più ricevere la retrocessione dalla società di gestione. E’ già successo 7 anni fa con le Gestioni Patrimoniali quando il regolatore ha impedito le retrocessioni sui fondi inseriti in gestione. Il motivo? I fondi a gestione attiva costano troppo e la loro performance è peggiore in media di quella degli ETF. Questo è un punto acquisito e provato da innumerevoli ricerche scientifiche. Quindi, una volta risolto il conflitto d’interessi, il gestore ha interesse a inserire solo quei fondi attivi che sono veramente “ottimi”. Il resto del portafoglio lo investirà o direttamente in titoli o in ETF. Non ha senso far pagare al cliente un costo per nulla. Lo stesso accadrà con la consulenza post Mifid 2.

In che senso i piccoli risparmiatori non saranno più seguiti da un “consulente”? In primo luogo, la direttrice dell’ANASF non deve aver mai avuto a che fare con un “vero” promotore, se pensa che questi abbandoni un cliente solo perché diventa poco redditizio. Il caso delle banche è diverso, ma lasciatemelo dire … ben venga! Siamo stufi di dire a tutti i nostri parenti e amici di comportarsi come dei sordomuti quando entrano in una filiale. Sono arrivato a mettere in mano un foglietto a mia suocera con sopra scritto l’ISIN del BTP che doveva comprare. E quindi mi auguro che torneremo alla situazione di 20 anni fa, quando il cliente entrava in banca senza alcun timore e si fidava del direttore. Magari, vedremo di nuovo consigliati i titoli di Stato a chi ha 5.000 euro da investire e non qualche fondo total return o qualche polizza che a parità di rischio e scadenza fa perdere 2 o 3 punti percentuali (all’anno) rispetto ai titoli di Stato.

In che senso la trasparenza è la chiave per tutelare i “piccoli”? La trasparenza in Finanza è solo una parte della difesa dei consumatori. L’asimmetria informativa tra l’industria e i consumatori è così elevata che la trasparenza non è assolutamente sufficiente. Il fallimento della Mifid 1 è dovuto proprio a questo e la Mifid 2 cerca di provi rimedio, ri-responsabilizzando le autorità e i distributori rispetto a quello che viene collocato presso la clientela retail. Ma poi, se nella Finanza le cose sono così trasparenti per la clientela retail e basta leggere un prospetto informativo per comprendere la qualità di un prodotto, di cosa hanno paura i top manager dell’industria del risparmio gestito? I loro fondi sono “cari” perché sono i migliori, quindi il cliente retail sceglierà i loro fondi e non gli ETF. O forse non è così?

La trasparenza passa anche per la semplicità. Cosa c’è di più semplice di una relazione con i clienti senza conflitti d’interessi? Se in Italia si arrivasse ad una implementazione non annacquata della Mifid2, quello che accadrà è una enorme semplificazione del materiale contrattuale e informativo. Le banche non dovranno più tutelarsi dal conflitto d’interessi, perché sarebbero esattamente dalla stessa parte del cliente. Dispiace che il prof. Forestieri (intervistato anche lui su plus24 del 19 luglio) non colga il punto rivoluzionario della Mifid2 e la accomuni ad altre attività di regolamentazione dell’industria finanziaria. Nei contratti, tutta la parte dei conflitti d’interesse scomparirebbe. I “numeri” presenti nel materiale informativo si ridurrebbero, dovendo esporre solo il costo finale al cliente e non più la quota retrocessa alla rete. Tra l’altro, la struttura stessa di pricing si semplificherebbe e tornerebbe a quella delle “origini”, non essendoci più bisogno di opacizzare i costi effettivi e le relative retrocessioni alle reti di distribuzione. Scomparirebbero tutte le attività di compliance volte a verificare se le retrocessioni pagate sono in linea con la best practice, se un promotore non sta favorendo una certa casa di gestione presso i suoi clienti rispetto ad un’altra, se il collocamento di fondi risponde all’ammontare delle retrocessioni piuttosto che agli interessi del cliente, etc etc.

Share Button

Rispondi