I dati del PIL dell’Eurozona del secondo trimestre sono pessimi, con le tre principali economie in stagnazione. Di chi è la colpa? Sui media il dito viene puntato contro le politiche di austerità fiscale imposte da Bruxelles, ma non è così. La colpa della fase attuale di stagnazione delle economie europee è in gran parte attribuibile alla BCE e non solo per non aver seguito tutte le altre banche centrali sulla strada del Quantitative Easing. A cosa ci riferiamo?
In primo luogo alla “banking union” e alla relativa attività preparatoria. La cosa peculiare è che Draghi, quando parla dei rischi per la ripresa economica in Europa, parla spesso dei rischi geopolitici, della mancanza di fiducia causata dai ritardi nelle riforme strutturali, … ma non menziona mai la banking union. Una combinazione di eccesso di prudenza tipico dei banchieri centrali e di consapevolezza dei limiti politici ad una vera “union” ha spinto infatti la BCE a pretendere una lunga fase preparatoria dove tra “stress test” e “asset quality review” il sistema bancario europeo è stato costretto a liquidare le posizioni dubbie (si veda la perdita monstre di Unciredit nel 2013), varare aumenti di capitale … e bloccare il credito. Adesso alcune banche europee hanno livelli di equity molto superiori a quelli ritenuti sufficienti dalle autorità internazionali di regolamentazione. Il che va bene per la stabilità del sistema finanziario e quindi per la BCE come nuova autorità di vigilanza. Ma tra stabilità e crescita esiste un trade-off. E’ evidente che in un sistema bancocentrico come quello dell’Europa continentale la (preparazione alla) banking union equivale ad una politica creditizia fortemente restrittiva. Indipendentemente dai vantaggi che potrebbero derivare nel lungo periodo dalla banking union, i costi di breve periodo contano per la crescita enormemente di più delle contro-sanzioni di Putin sull’importazione di alimentari.
In secondo luogo, la BCE non solo non ha utilizzato lo strumento del Quantitative Easing (QE) ma non ha nemmeno rinnovato i LTRO che venivano a scadenza, di fatto riducendo la liquidità nel sistema. Si è usata la scusa che i soldi prestati con le operazioni di LTRO non sono stati impiegati a favore dell’economia reale ma sono stati utilizzati dalle banche per comprare titoli di Stato. Colpevolmente, la BCE non ha combattuto l’erroneità di questa tesi. Come se lo Stato non faccia parte dell’economia e la spesa pubblica, corrente e in conto capitale, non contribuisca alla crescita economica, soprattutto quando si è in una situazione di trappola della liquidità. Il QE (come gli LTRO) della FED e della BoJ hanno come sottostante primario proprio i rispettivi titoli di Stato. E non si può certo dire che a fine 2013 e inizio 2014 la situazione economica negli USA e in Giappone fosse peggiore di quella in Europa, anzi.
L’effetto collaterale di questa politica monetaria e creditizia restrittiva è stato l’apprezzamento dell’euro. La BCE di fatto ha lasciato che l’euro di apprezzasse nei confronti del dollaro e delle principali valute perché ha drenato “euro” dal sistema mentre la FED, la BoJ e le altre banche centrali hanno continuato a pompare “dollari”, “yen”, … con le operazioni di Quantitative Easing. L’apprezzamento dell’euro è un grosso errore di politica monetaria, perché, se è vero che il cambio non rientra tra gli obiettivi (espliciti) della BCE, scongiurare la deflazione sì. Non ci vuole molto per capire che l’euro “forte” è una scelta assurda quando l’economia europea è la più debole e l’inflazione è in sensibile riduzione.
Fortunatamente, la BCE si è accorta dell’errore e a giugno ha dato l’impressione di voler cambiare direzione, con i tassi negativi, con l’annuncio dei T-LTRO, degli acquisiti di ABS e mettendo il cambio nel “mirino”. Se il “mercato” può reagire immediatamente, l’economia reale ha una forza di inerzia incontrastabile e quindi bisognerà aspettare ancora parecchi trimestri prima di vedere l’effetto sul PIL della nuova impostazione di politica monetaria.