Si è svolto ieri a Doha il vertice tra i 16 paesi produttori di petrolio, membri OPEC e non, che ha dato esito negativo.
L’obiettivo del vertice era trovare un’intesa sulle quantità di oro nero prodotte che, secondo quelle che erano le indicazioni iniziali, si sarebbero dovute congelare ai livelli di Gennaio fino al prossimo Ottobre.
Questo, secondo i sostenitori, avrebbe avuto un impatto positivo sul prezzo del petrolio il cui prezzo avrebbe beneficiato di una quantità inferiore di bene in circolazione, secondo quanto dettato dalle vecchie leggi della domanda e offerta.
Il vertice di fatto si è concluso con una fumata nera, allegoria azzardata dato il luogo in cui questo si è svolto.
La causa principale del nulla di fatto secondo gli analisti risiede nella divergenza mai celata tra le posizioni di Iran ed Arabia Saudita.
In particolare è stata la posizione degli iraniani, assenti all’incontro perché contrari, a generare il veto dell’Arabia Saudita che avrebbe partecipato all’accordo solamente se l’Iran avesse fatto altrettanto.
Ad oggi l’Iran produce il 9,67% del totale dei paesi OPEC, che è di circa 40 milioni di barili al giorno, mentre la produzione dei paesi non OPEC è di oltre 66.
La mancata intenzione di congelare i propri livelli di produzione deriva dal fatto che la capacità produttiva iraniana non è ancora a pieno regime: non sono infatti ancora stati raggiunti i livelli di produzione pre-embargo.
Il risultato del mancato accordo è stata la caduta del prezzo sia del Brent che del WTI di circa 4,5 punti percentuali nelle prime ore di contrattazione.
Chiaramente l’evento ha scatenato le opinioni più divergenti, tra chi si è affrettato a prevedere un prezzo del petrolio nuovamente al di sotto dei 30 dollari al barile e chi ha visto nel mancato accordo un fattore irrilevante per i mesi a venire.
Abbiamo letto interessanti opinioni su entrambi i fronti: sul lato bearish leggiamo che l’incremento della produzione dell’Iran libero dall’embargo, sarà in grado di influenzare il prezzo del petrolio spingendolo al ribasso: a regime dovrebbe essere in grado di produrre 4 milioni di barili al giorno contro i circa 2,9 a Febbraio.
Sul fronte bullish, o quantomeno neutral, leggiamo che in realtà gli attuali livelli di prezzo hanno già impattato sulla produzione americana; inoltre viene segnalata la forte intenzione da parte della Russia di proseguire sulla strada del congelamento dei livelli di produzione già dal prossimo vertice di Giugno.
A livello di sentiment possiamo vedere quali sono i livelli attuali rispetto ad una settimana fa, ossia prima del vertice di Doha: c’è un forte incremento della visione Bearish a discapito della visione neutral e Bullish.
E’ tuttavia importante vedere quali siano le divergenze di visione a seconda del periodo considerato e per fare questo abbiamo preso in considerazione il prezzo dei futures fino al 2019.
Vediamo chiaramente quanto prevalga il sentiment Bearish fino al Q3 2016, in prossimità del prossimo vertice mentre nel medio/lungo periodo la visione è Bullish.
In tutto ciò, in attesa di comprendere quali saranno le effettive ripercussioni dei mancati accordi sul prezzo del greggio nei prossimi mesi, non possiamo non fare una riflessione in merito alla posizione degli Stati Uniti: secondo le stime di Goldman Sachs i produttori americani hanno bisogno di un prezzo che si aggira intorno ai 55 dollari al barile per poter lavorare.
Questo significa che la storicamente liberista America trarrebbe dei benefici dal congelamento della produzione che potrebbe essere visto come una manovra dal sapore statocentrico tipico delle economie sovietiche.
Che sia anche questo un segno dei tempi?